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IL LIBRO DI BARUC

 

Si tratta di un piccolo libro che fu accolto ufficialmente nel canone della Chiesa Cattolica, nel 1546 al Concilio di Trento. Nella Bibbia ebraica non compare. Nei LXX si trova dopo Geremia e prima di Ezechiele. Baruc è detto il “segretario” del profeta Geremia ma è meglio definirlo come il discepolo che continua l’opera del maestro. Fedele al suo maestro, lo segue anche nel soggiorno in Egitto (cfr. 43,6-7) dove Geremia avrebbe proseguito a pronunciare oracoli contro l’Egitto (cfr. 43,8-13; 46,1-13). Baruc in diverse occasioni è incaricato di agire al posto di Geremia. Lo delega a firmare un contratto per l’acquisto di un terreno (cfr. Ger 32,12-16), scrive le parole che gli detta, come quelle di censura nei confronti del re e poi le legge ai capi del popolo.
Quando il re brucia il rotolo, Baruc lo riscrive sotto dettatura del profeta-maestro (cfr. 36,1-32). Il libro di Baruc spiega agli esiliati le cause dell’esilio e le conseguenze che ne seguirono. Insiste su tre tematiche fondamentali: il peccato d’Israele che deve essere riconosciuto e confessato; l’impegno di conversione; la speranza fiduciosa nella bontà di Dio. Il libro risulta così articolato: a) Prologo storico (1,1-15a) b) Liturgia penitenziale (1,15b-3,8) c) Inno alla Sapienza (3,9-4,4) d) Promessa di consolazione (4,5-5,9) e) Lettera di Geremia (6,1-72).

La liturgia penitenziale

Il dramma dell’esilio suscitò la domanda: come credere nella signoria di Dio, visto che il tempio era stato distrutto; il re davidico condotto in cattività; la terra promessa sottoposta al dominio babilonese? La perdita del tempio, della terra e del re costituiva il fallimento totale. Baruc interpreta questa realtà di desolazione, alla luce dello schema deuteronomico, secondo cui il peccato conduce al castigo, ma il pentimento ottiene il perdono e il rinnovo del patto. Di qui il cammino penitenziale

che riconosce la causa dei mali nella disobbedienza alla voce del Signore (1,17). Essa provocò la collera divina. Per questo scaturirono molti mali: «furono resi schiavi, non padroni» (2,5), ricevettero obbrobrio, maledizione e condanna (3,8), morte prematura (3,11), schiavitù (4,31-35). Gli esuli, consapevoli del loro peccato, si rivolgono a Dio per domandargli la salvezza (2,11–3,8). E confessano «abbiamo abbandonato la fonte della Sapienza» (3,12), affliggendo anche la madre che li ha nutriti, cioè Gerusalemme (4,6-8), la quale sarà punita per i peccati dei suoi figli (4,12-13). Il Signore è l’unico in grado di concedere la salvezza. Se abbandonano il loro peccato, Dio li perdonerà e li farà tornare a Gerusalemme, comunità ospitale e feconda (4,5-5,9).

Un originale testo poetico sapienziale

Scegliamo di approfondire questa parte (3,9-4,4) perché il Lezionario della Veglia Pasquale tra la lettura del profeta Isaia ed Ezechiele ne propone alcuni versetti (Bar 3,9-15.32-4,4). Come mai? Nella quinta (Is 55,1-11) e nella settima lettura (Ez 36,16-28) spicca l’immagine dell’acqua, nella sesta (Bar 3,9-15.32-4,4) quella della luce. Nella tradizione cristiana le due immagini evocano il battesimo, come menzionato nella eucologia dopo il testo di Baruc e il salmo responsoriale. La luce della sapienza diventa la luce di Cristo Risorto che noi riceviamo per essere a nostra volta luce per il mondo.
Appare che Profezia e Sapienza, testimoniano a voce unica che Cristo, «apparso sulla terra», è vissuto, morto e risorto «fra gli uomini». Chi desidera risorgere, deve abbandonare il peccato, cercare la Sapienza e camminare alla sua luce. Baruc più che parlare di Sapienza esorta a percorrere il cammino che ad essa conduce.

L’invito iniziale (3,9-14)

Il messaggio è sintetizzato in tre verbi: «ascolta, porgi l’orecchio e impara». «Ascolta, Israele» riprende Dt 4,1; 5,1; 6,4 ma anche i testi i sapienziali. L’ascolto e il porgere l’orecchio sono la condizione indispensabile perché l’insegnamento diventi fruttuoso (cfr. Pr 1,8; 4,1.10; 5,7; 8,22-23) «Se ti è caro ascoltare, imparerai; se porgerai l’orecchio, sarai saggio» (Sir 6,33). L’ascolto è diretto ai “comandamenti della vita”, alla “prudenza” che coincide con “la conoscenza” e “la Sapienza” espressa nella legge del Signore, che conduce alla vita (cfr. Dt 30,16). Osservare la Legge equivale a seguire la Sapienza, che porta alla vita; abbandonarla equivale a morire. I versetti 10-13 ricordano che i dispersi d’Israele languiscono perché si sono allontanati dalla Legge. In terra straniera sono invecchiati, si sono contaminati in mezzo ai pagani, sono scesi nella fossa, privi di ogni speranza. Sembrano vivi, in realtà sono dei morti viventi, perché hanno voltato le spalle alla fonte della Sapienza, che sono i comandamenti divini, cioè Dio stesso. In queste parole appare una eco delle parole di Geremia: «Il mio popolo ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne screpolate che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13). Raggiungere la fonte della Sapienza non è facile; Israele deve impegnarsi a imparare dove si può trovare la prudenza, la forza, e l’intelligenza.

Parte centrale (3,15-4,1)

Comincia con una domanda: «Chi ha scoperto la sua dimora, chi è penetrato nei suoi forzieri?» (3,15; cfr. 3,30). Il pronome “chi” indica che il vero problema non è la Sapienza in sé stessa, ma è identificare chi la conosce e sa dove si trova. Nessuno può accedere alla Sapienza e nessuno conosce la via per arrivare fino ad essa; nessuno può seguire le tracce del suo sentiero. Come pure nessuna attività, sforzo o successo umano può conquistare la Sapienza perché essa è inaccessibile agli uomini (cfr. Dt 30,12-13). La via della Sapienza è accessibile soltanto a “Colui che sa tutto”, al Creatore dell’universo (cfr. Gb 28,23-27). La Sapienza è prerogativa esclusiva di Dio, egli la possiede e la conosce e può concederla in dono a chi vuole. I due verbi “apparire” e “convivere”, riferiti alla Sapienza, dovrebbero tradursi al femminile (traduzione accolta dalla CEI), benché la loro forma sia comune ai due generi.

La versione latina e quella siriaca hanno preferito il maschile: «Per questo egli è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini» (cfr. 3,38). Così leggono Baruc alla luce di Cristo, e interpretano che la Sapienza divina è Gesù, il Figlio di Dio, che come Verbo del Padre è venuto ad abitare in mezzo a noi. Questa lettura cristologica è dei Padri greci e latini (come Ireneo, Origene, Eustazio di Antiochia, Atanasio e Cirillo) che la propongono durante e dopo la controversia ariana del secolo IV d.C. Per Baruc, in sintonia con il Deuteronomio (4,5-14) e Ben Sira (24,23), la Sapienza è Legge, “il libro dei decreti di Dio”. La Sapienza che Dio dona a Israele, identificata con la Legge (Torah) racchiude la rivelazione divina che è per la vita: «Essa è il libro dei decreti di Dio e la legge che sussiste in eterno; tutti coloro che si attengano ad essa avranno la vita, quanti l’abbandonano moriranno» (4,1).

Invito finale (4,2-4)

La conclusione riprende l’esortazione iniziale ma con una notevole differenza. All’inizio si rivolge a un popolo demoralizzato a causa del peccato; alla fine culmina con un invito alla gioia e alla felicità, grazie all’avvenuta conversione. Infatti ai tre imperativi iniziali: «ascolta, porgi l’orecchio e impara» fanno eco «ritorna, accoglila e cammina» (4,2) che accentuano l’urgenza della conversione:
«Ritorna, Giacobbe, e accoglila, cammina allo splendore della sua luce. Non dare a un altro la tua gloria né i tuoi privilegi a una nazione straniera. Beati siamo noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio è da noi conosciuto» (Bar 4,2-4). Il popolo eletto attinge la Sapienza se l’accoglie e si lascia guidare dai suoi insegnamenti. La Legge, come una luce splendente, è la gloria di Israele. Essa richiede di essere riconosciuta e custodita gelosamente e mai deve essere data alle nazioni straniere. Israele trova la sua felicità nel conoscere la volontà divina, ciò che piace a Dio, espressa nel libro della Legge. La Sapienza divina s’identifica con la Legge che è venuta sulla terra per stabilire la sua dimora tra di noi. Questa espressione richiama il prologo di Giovanni (1,1-18), che parla di Gesù, Parola vivente di Dio che venne ad abitare in mezzo a noi, si identifica con la Legge e porta luce e vita all’umanità. La beatitudine finale richiama Maria, dichiarata beata perché ascolta la Parola. «Mentre il Signore passava seguito dalle folle e compiva miracoli propri di Dio, una donna esclamò: Beato il ventre che ti ha portato! (Lc 11,27). Il Signore, però, perché non si cercasse la felicità nella carne, che cosa rispose? Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 11,28).
È per questo dunque che anche Maria fu beata, poiché ascoltò la parola di Dio e la mise in pratica. Custodì la verità nella mente più che la carne nel ventre» (Sant’Agostino, Sermone 72/A, 7).

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:

La Liturgia della Veglia Pasquale proclama parte dell’inno alla Sapienza di Baruc. Rileggi Baruc 3,9-4,4 e, alla luce del nostro approfondimento, condividi ciò che questo inno suggerisce al tuo cuore.

Suor Filippa Castronovo, fsp