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MATERNITA'

 



Continua il nostro cammino. Eravamo lì, in quella stanza al piano superiore, insieme a Maria e agli Undici. E ci chiedevamo: come ha fatto Maria a reggere a tutto quel dolore? Come ha fatto a sopravvivere al tradimento, alla violenza, alla morte, alla sepoltura del figlio, al silenzio dei tre giorni? Un giorno alla volta, un passo dopo l’altro, un sì e poi ancora un altro sì... non senza dubbi e fatiche.
Ha imparato sotto la croce, Maria. A non morire dietro le sue lacrime, Maria ha imparato quel giorno, sul Golgota, quando il cielo pioveva violenza e tutto stava finendo. E tutto era finito. Sul Golgota, dove la vita stava lasciandosi ingoiare dal nulla, dove la vicenda umana stava strappando l’Alleanza di sempre, dove la bestemmia di un’umanità cieca e impaurita, stava vomitando sangue e violenza. Lì, ha imparato. Lì, Maria ha imparato cosa vuol dire essere madre.
Qualcuno dice che «madre» è parola che deriva dal sanscrito (lingua indoeuropea) e significherebbe colei che misura, oppure colei che prepara. Maria, quel giorno, sotto la croce, ha imparato la misura dell’amore. Ma ha anche imparato la misura infinita del dolore, la misura dell’odio e della violenza e della chiusura dell’uomo, e la misura, smisurata, di dove possano condurre l’orgoglio e l’invidia.
L’evangelista Giovanni, descrivendo quella scena di smisurato dolore, farà piovere, in quei pochi versetti, la parola «madre» per ben sei volte.
A smisurato dolore, una smisurata risposta: una pioggia, stelle cadenti, per raccontare il poema della maternità! Il poema di colei che, misurata dal dolore, risponde con smisurato amore. A ogni dolore quella parola che si ripete, colpo su colpo: madre. A ripetersi, come una nostalgica litania, come a suscitare dolcezze e ricordi e carezze ormai troppo distanti: madre... madre... madre...

Madre è anche colei che prepara. Una madre sempre prepara: una casa, il pane, un vestito, un sorriso, l’ascolto, una parola, uno sguardo, un ventre. Un ventre che si gonfia a preparare vita. La madre è colei che per nove mesi prepara le condizioni affinché la vita possa diventare Vita. E poi, a parto avvenuto, non se lo dimentica più, se lo tiene scritto addosso, dentro, in ogni gesto. La vita diventa l’infinita variante d’amore della gravidanza. Sempre. Quando il figlio chiede, quando il figlio delude, quando il figlio non capisce... quando il figlio muore. Il ventre si dilata, le viscere si commuovono, e la madre, se è madre, inventa come continuare a essere un ventre gravido di possibilità. Una madre fa rinascere la vita. Una madre prepara le condizioni affinché la vita possa essere viva. Lei sarà, per sempre, colei che prepara. Serva. Sì, serva della vita!
Maria, sono in dialogo con te, vorrei capire come si impara ad amare. Le parole di tuo figlio dalla croce hanno disegnato l’ultimo tratto del tuo splendido profilo. «Donna, ecco tuo figlio». In quella pioggia di «madre», lui non ti ha chiamato mamma. È riuscito a morire resistendo a quella straziante, dolcissima tentazione. Solo «donna» ti chiamò. L’ultimo dolore per te, l’ennesima spada; ma dolore necessario, perché il cordone si è spezzato e tu sei nata, libera. Se ti avesse chiamato «madre» saresti stata per sempre solo sua. Invece, così ti ha liberata. Ti ha consegnata.
Maria, come si impara ad amare? Diventando madri! Mettendo al mondo, fino a dare il sangue, fino ad attraversare il dolore, per poi lasciare, liberi, i figli.
E questo si può imparare solo lì. Mentre anche lui partorisce vita dalla croce. Mentre anche lui riesce, ancora una volta, a legare dolore e fecondità. Come solo le madri sanno fare. A unire a smisurata violenza, l’unica misura di cui è capace: l’amore, il dare tutto. Li amò fino alla fine (Gv 13,1). A preparare, come solo le madri sanno fare, un posto. Per ciascuno di noi. Vado a prepararvi un posto (Gv 14,2).
Dolore e fecondità: ecco come si diventa madri. No, il dolore non basta. Tutti possono soffrire. Se il dolore rimane dolore è maledizione. Ma se dal dolore fiorisce vita feconda allora quella è santità.
Maria, tu sei la donna del dolore fecondo, del sangue che tocca le zolle del Getsemani e fiorisce preghiera; tu sei dolore fecondo, come il suo. E noi, uomini impauriti e smarriti; noi, discepoli di oggi; noi, a cui il soffrire fa paura. Noi siamo qui a chiederti di darci la forza di prendere con noi il dolore. Di non fuggirlo più, ma di guardarlo negli occhi. E stare, come ai piedi della croce mentre ti uccidono il figlio. Stare, resistere, nel cuore delle tempeste della vita, come quando il capitano si aggrappa all’albero maestro, ma la nave no, non la lascia alla ferocia della tempesta. Come quando la vita non la capiamo più, come quando la vita ci mangia via la speranza, ... non è il dolore che tu vuoi, ma la fecondità.
Signore, noi non ti chiediamo di soffrire: il Vangelo non è Parola di sofferenza. No, noi non crediamo che tu sia felice dei nostri dolori. E nemmeno che sia il dolore a salvarci. A salvarci dalla disumanità sarà la fecondità. Sarà la capacità di continuare a restare madri. Rispondendo con smisurato amore alla misura colma della violenza, preparando un ventre gravido anche alla sterile arroganza del dolore.
Non ti chiediamo, Signore, di liberarci dagli affanni, dalla malattia, dalla solitudine... non ti chiediamo di darci una vita facile. Ti chiediamo la forza di scegliere una vita feconda. La forza di amare così tanto la vita da trovare delle possibilità di «mettere al mondo» speranza, anche quando sembra impossibile.
Maria, in questa stanza del piano superiore, mentre tutti pregano e tu sei cuore a cuore con il Dio che ti ha rimodellato la vita, ci sono anche io e guardo da lontano. E sento che devo imparare da te.

Francesca V.

Bibliografia:
A. Deho, “Maria. Un cammino”, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 2020.