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ISAIA DINANZI AL “TRE VOLTE SANTO”
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Il libro di Isaia, come abbiamo già osservato, non si apre con il racconto della chiamata come per gli altri profeti. La sua chiamata viene, invece, raccontata come un’esperienza spirituale vissuta dentro la storia del popolo cui Dio lo manda come profeta. Questa esperienza avviene nel contesto della morte del re Ozia, dopo 52 anni di regno (cfr. 2Cr 26,1-23). La morte di un re, sempre, segna una situazione di instabilità politica. Isaia dinanzi a questa instabilità resa più forte e imprevedibile dalla potenza assira che avanza verso la Siria e la Palestina, comprende e proclama che nessun re umano dirige la storia ma solo Dio, unico re saldo (cfr. Sal 93,29). A lui, dunque, i re e il popolo devono affidarsi! Il racconto della vocazione fa da cerniera tra i primi capitoli (1-5) di minaccia contro Israele e l’Assiria, e i due capitoli che seguono (7-8) che sviluppano la salvezza del resto. Questa collocazione rende ragione della caratteristica della vocazione di Isaia che, rispetto ad altre chiamate bibliche, può dirsi di tipo “politico”. Dio è presentato come un Sovrano con il suo consiglio e il chiamato che Lui sceglie, farà parte di questo particolare ‘consiglio dei ministri’.

La teofania: Dio, il re, il santo, il glorioso (Is 6,1-4)

Il brano è caratterizzato da due verbi di percezione: (v. 1b «io vidi», e v. 8a «io udii») che sembrano suggerire la divisione del capitolo in due parti: vv. 1-7, visione del Signore tre volte santo, e 8-13 le parole udite sulla missione di Isaia: «Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato...». Dio si fa vedere dal profeta che esclama: «Ho visto il Signore». Tanti personaggi biblici hanno desiderato vedere Dio ma non è stato loro concesso.
A Mosè ad esempio che gli chiede di farsi vedere, concede di vederlo di spalle, dopo cioè che è passato o meglio lo “vede”

nella storia di salvezza che Dio opera (cfr. Es 33,21-23). Ma vedere Dio, in molti testi della Scrittura, significa morire (cfr. Es 33,20). Isaia vede Dio e resta vivo! La sua esperienza di visione realizza una comunicazione tra cielo e terra. Dio che si fa vedere comunica un forte senso di trascendenza che provoca in Isaia, e poi nel lettore credente di tutti i tempi, un atteggiamento di umile adorazione. Isaia vede Dio avvolto da un mantello i cui lembi scendono dall’alto e riempiono il tempio. Essi mentre mostrano la distanza tra Dio e la percezione umana che Isaia sperimenta, indicano che il Signore, con tutta la sua maestà, è presente nel tempio, il luogo centrale della vita del popolo. I serafini (il termine significa “bruciare”, dunque “essere bruciante”) sono coloro cioè che ardono intorno al Signore per cantarne le lodi, con le quali testimoniano la santità di Dio, qualità che appartiene solo a Lui.
Dio è proclamato «tre volte Santo» perché la sua santità è al massimo grado. Il concetto di santità, detta di Dio, ha due aspetti: da una parte connota la sua alterità di fronte a ogni altro essere, cioè la sua trascendenza; dall’altra indica l’aspetto etico di santità morale, l’opposto di ogni imperfezione etica. Dio il “separato da noi” e “diverso da noi”, perché “trascendente” è in modo speciale anche il Santo “d’Israele”. Inafferrabile nella sua santità si mostra vicino, alleato, presente nella storia umana. La sua vicinanza nel mondo si manifesta con la sua gloria (Kabod); gloria che la persona umana percepisce come splendore, bellezza, importanza, come sua signoria sulla terra [https:­//www.paoline.it/­blog/bibbia/­gloria.html]. La descrizione della tunica, del mantello, del fuoco, comunica che, a differenza dei re orientali, Dio non è circoscritto né al tempio né alla terra.

La consacrazione profetica (vv. 6-7)

La reazione di timore di Isaia di fronte alla visione maestosa di Dio, circondato dai serafini, può essere compresa in due modi: “sono perduto” oppure “devo stare zitto”. Poiché la mia impurità non mi consente di aprire bocca e associarmi al canto dei serafini.
Questa reazione ricorda quella di Pietro dinanzi a Gesù, quando si riconosce peccatore (Lc 5,8). Colpito da un tremore reverenziale esclama: «Ohimè! Io sono perduto, / perché un uomo dalle labbra impure io sono / e in mezzo a un popolo / dalle labbra impure io abito; /eppure i miei occhi hanno visto / il re, il Signore degli eserciti» (6,5). Isaia sa di non essere nel peccato, ma si scopre peccatore come tutti gli esseri umani. Non si ritiene, dunque, il giusto tra i peccatori ma, piuttosto, solidale nella colpa che caratterizza l’umanità. Il peccato – che egli percepisce nelle sue labbra – rivela quello che c’è nel cuore, cioè nell’interezza della persona (cfr. Mt 15,10-20). Dio, per questo, manda uno dei serafini a purificargli le labbra con un carbone ardente. La purificazione delle labbra è particolarmente significativa per il profeta che ha la missione di comunicare le parole del santo Dio. Purificato con il fuoco, Isaia diviene, egli stesso, per Dio, “serafino” (cioè ardente). Isaia è ora trasformato in voce per Dio e in portatore della sua santità. Si è lasciato trasformare in un incontro che fa temere la sua stessa vita. Avendo confessato la sua peccaminosità Dio lo perdona e salva. Dio non teme il peccato ma l’ostinazione nel peccato. Questa esperienza ricorda una raccomandazione di Francesco: “Peccatori sì, corrotti no!”.

Purificato per essere mandato: la missione

Sintonizzato con il “tre volte Santo” – che è il re dell’universo – percepisce la Sua preoccupazione per il destino del mondo e della storia umana che si fa parola: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Il profeta sente quelle parole e si offre volontario: «Eccomi, manda me», senza sapere che cosa dovrà fare e senza poter prevedere il risultato. La sua missione sarà di giudizio ed egli sarà inascoltato: «in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito» (v. 5). Il v. 9 lo esplicita chiaramente: «Egli disse: “Va’ e riferisci a questo popolo: ‘Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete’ “». La missione di Isaia è durissima e di difficile comprensione! Sembra, infatti, come suggerisce il v. 10 che dovrà indurire il popolo di Giuda. Questo indurimento è una tappa, uno stadio, in un processo più grande di purificazione del popolo che avviene anche tramite concrete calamità storiche (cfr. Is 1,21-28).
Il “canto della vigna” (cap. 5) mette in luce l’infedeltà del popolo all’alleanza, in contrasto con la cura di Dio verso di esso, motiva questa condanna. Nella storia vissuta da Isaia un esempio di questo si ritrova nel re Acaz di fronte al consiglio di Isaia di non cercare alleanze politiche con altri popoli (Is 7,10-17).
Il capitolo 8 descrive l’indurimento “del popolo” con questa immagine: «ha rigettato le acque di Siloe» (Is 8,6) segno della protezione salvifica che Dio offriva a Gerusalemme. Re e popolo hanno rigettato Dio perciò la devastazione arriverà, con la minaccia dei Babilonesi. Il giudizio di condanna non è, tuttavia, un castigo irrimediabile di Dio verso il suo popolo, ma una correzione destinata a creare un ‘resto’ che rappresenta un popolo rinnovato, purificato, santificato da Dio. L’indurimento, inoltre, non è totale. C’è già un piccolo gruppo di fedeli, simboleggiati da Isaia e i suoi discepoli che aspettano fiduciosi anche se Dio sembra aver nascosto la sua faccia da Gerusalemme. «Richiudi questa testimonianza, e sigilla questo insegnamento nel cuore dei miei discepoli. Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (Is 8,16-18).
E nel futuro, dopo le tenebre ci sarà un re davidico che reggerà il popolo “con il diritto e la giustizia” (Is 9, 1-6) sul trono di Davide in un’era di pace e benessere. La vigna verrà ristabilita (cfr. 27,2-5). Ci sarà un resto santo: «Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme» (4,3). Ed ecco la domanda di Isaia nel versetto 11: «Fino a quando, Signore?» che probabilmente non vuole chiedere un’informazione temporale sulla durata dell’indurimento del popolo, ma – considerata alla luce di altri testi biblici – si tratta di una intercessione profetica (cfr. Am 7,2.5) e dell’uso nei Salmi della espressione “fino a quando”, con la connotazione di una supplica a Dio per la fine di uno stato di sofferenza (cfr. Sal 74,10; 79,5; 90,13; 94,3). La risposta del Signore (vv. 11b-13) non offre nessuna consolazione per l’immediato. La calamità dovrà arrivare (vv. 11b-12b). Nel versetto 13 si dice che anche la decima parte che rimane, forse il regno del sud o Giuda, farà la fine del regno del Nord. Soffrirà anch’essa una devastazione e solo una minima parte resterà. La distruzione non sarà totale, resterà un ceppo «di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo il suo ceppo» (Is 6,13). L’immagine del ceppo rimanda al germoglio che spunterà dal tronco di Iesse (Is 11,1), segno di vita e speranza.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

1) Che cosa ti comunica constatare che Isaia, dopo la purificazione delle sue labbra, diviene, anche lui, “serafino”, cioè, ardente davanti a Dio, quindi capace di percepire le sue preoccupazioni, perché sintonizzato con Dio?

2) In clima di preghiera, rileggi Isaia 6,1-13 e sottolinea le parole (verbi o aggettivi) che ti colpiscono e domandati: che cosa mi domanda a riguardo della mia vita la parola che mi ha colpito?

Suor Filippa Castronovo, fsp