Fino a quando, Signore?
Nella prima parte il profeta, dinanzi al male senza alcuna umana spiegazione, si lamenta e si rivolge a Dio da cui attende la risposta: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?» (cfr. 1,2-4). Questo grido-lamento testimonia il problema vissuto dal profeta riguardo alla giustizia di Dio nella storia da cui sembra essere contraddetta. Vivendo la vocazione profetica da mediatore, ascolta l’umanità, della quale interpreta le domande profonde, ma nello stesso tempo interpella la voce di Dio per riceverne le risposte che possano illuminare (cfr. Ger 11,18-20.21-23; 12,1-4.5-6; 15,10-11.12- 14.15-18.19-21).
La risposta di Dio ad Abacuc stenta ad arrivare. Però quando arriva Dio gli risponde con disarmante chiarezza: i Caldei (cioè i Babilonesi), nemici del popolo, verranno per eseguire il suo giudizio (Ab 1,1-5).
Se volessimo descrivere lo stupore di Abacuc dovremmo immaginarlo con l’orecchio ben aperto all’ascolto e con il cuore che grida a Dio: “Signore non sento alcuna risposta, non vedo nessun intervento; fino a quando rimarrai in silenzio?”.
In un certo senso, come Giobbe, anche Abacuc non si accontenta di risposte standard o prefabbricate ma va al cuore del problema, interrogando Dio: “Fino a quando Signore?” (cfr. Sal 13,2-3).
Ecco il messaggio di Abacuc: Dio è il protagonista della storia umana e solo da Lui le nostre domande trovano le risposte giuste.
Nel secondo capitolo, il profeta è incoraggiato a restare fedele perché mentre gli empi periranno “il giusto vivrà per la sua fede” (cfr. 4.4). Dio gli risponde, assicurandolo che i malvagi cadranno e la giustizia trionferà.
I dialoghi tra il profeta e Dio sono seguiti da cinque “guai” (2,5-20): sono una critica sociale contro i ricchi e la classe politica dirigente, che fomentava l’ingiustizia.
Abacuc si rivolge al ricco disonesto, a chi strumentalizza le debolezze altrui e a chi costruisce idoli, mostrandosi un parolaio, annunciando loro che prima o dopo saranno derisi. E il profeta sembra quasi dire a Dio: “Perché fai vedere queste cose proprio a me?”.
La “novità” della teologia di Abacuc Il secondo capitolo inizia così «Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti» (Ab 2,1). Abacuc è l’uomo di fede che, come sentinella, scruta l’orizzonte e attende ansiosamente di vedere qualcosa: “guarderò per vedere”.
Vedere che cosa? Il linguaggio è poetico: il profeta desidera vedere la Parola di Dio, ben sapendo che dovrà trovare la risposta ascoltando con lealtà la voce di Dio dentro di sé. Abacuc è profeta, non perché sperimenta visioni straordinarie ma perché vede la realtà con gli occhi di Dio. Al profeta che vuole vedere Dio risponde con una visione (2,2-4) che riguarda il momento decisivo del suo intervento. Questa visione/rivelazione è sicura perché garantita da Dio. La persona umana deve solo vivere un fiducioso atteggiamento di attesa: «Il Signore rispose e mi disse: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”» (Ab 2,2-4).
Abacuc, nel suo modo di interrogarsi manifesta l’identità del giusto che si fida e affida a Dio che assicura la vita. E se il giusto dovesse trovarsi in mezzo a “leoni e vipere” (Ab 3,19), come accadde al profeta Daniele, non si lascia abbattere, anzi li calpesta (Sal 91,13). Al giusto, che si arrende a Dio, si aprono le strade della vita, proprio dove e come non avrebbe mai immaginato. L’autorevole esegeta, A. Schökel, commenta: «Solo il dialogo con Dio, la domanda, l’obiezione, l’atteggiamento di fede, la speranza contro ogni speranza, costituiscono la via giusta di interpretazione del corso della storia e dei problemi che pone».
La vocazione come mediazione, vissuta da Abacuc nel duplice ascolto della situazione e di Dio, alla Famiglia Paolina ricorda le parole con le quali Alberione definiva l’apostolato paolino: «... Ma al presente pare che il cuore dell’apostolo non possa desiderare il meglio per donare Dio alle anime e le anime a Dio» (UPS, I, n. 313).
Il cantico di Abacuc
Il terzo capitolo sintetizza, in forma di salmo, la risposta del profeta che confidando nel Signore, lo loda. La situazione non è cambiata ma è cambiato il cuore del profeta che si è riconciliato con Dio.
Il libro, infatti, comincia con la domanda: “Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”, ma, poi, conclude con la lode: «Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore» e «Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle mie alture mi fa camminare» (3,18-19).
L’espressione: “gioirò nel Signore” risuona nel Magnificat di Maria che loda il Signore perché abbassa i potenti e innalza gli umili.Commenta Giovanni Paolo II: «L’inno, che rivela anche una considerevole forza poetica, presenta una grandiosa immagine del Signore (cfr. vv. 3-4). La sua figura incombe solenne su tutta la scena del mondo e l’universo è percorso da un fremito di fronte al suo incedere. Egli sta avanzando dal sud, da Teman e dal monte Paran (cfr. v. 3), cioè dall’area del Sinai, sede della grande epifania rivelatrice per Israele... è bellissimo il versetto finale che esprime la riacquistata serenità. Il Signore è definito – come aveva fatto Davide nel Salmo 17 – non solo come “la forza” del suo fedele, ma anche come colui che gli dona agilità, freschezza, serenità nei pericoli. Davide cantava: “Ti amo, Signore, mia forza… Egli mi ha dato agilità come di cerve, sulle alture mi ha fatto stare saldo” (Sal 17,2.34).
Ora il nostro cantore esclama: “Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare” (Ab 3,19). Quando si ha il Signore accanto, non si temono più gli incubi e gli ostacoli, ma si prosegue con passo leggero e con gioia nella via pur aspra della vita» (Udienza Generale, 15 maggio 2002).
PER LA RIFLESSIONE PERSONALE
1) Nei momenti di oscurità sono capace di “gridare” a Dio sapendo che solo Lui può farmi camminare speditamente anche in “mezzo a vipere e leoni”?
2) Che tipo di richiamo intuisco tra la fede in Dio di Abacuc, vissuta nei paradossi della storia, e quella che il nostro Fondatore narra nella nostra storia carismatica? «Talora le necessità erano urgenti e gravi: e tutte le risorse e speranze umane erano chiuse: si pregava e si cercava di cacciare il peccato ed ogni mancanza contro la povertà: e soluzioni impensate, denaro pervenuto attraverso sconosciuti, prestiti offerti, benefattori nuovi ed altre cose che egli non seppe mai spiegarsi...; le annate passavano, le previsioni di molti di certo fallimento, le accuse di pazzia... svanivano e tutto si conchiudeva, magari con fatica, ma in pace» (AD 165).
3) Quali nuovi orizzonti san Paolo conferisce (cfr. Rom 1,16-17) alla certezza di Abacuc: «Il giusto vivrà per la fede»?
4) Quale somiglianza vedi tra la risposta di Dio al profeta, al quale, anziché risolvere i suoi problemi annuncia l’arrivo dei Caldei, con la parola che riceve san Paolo, al quale, lasciandogli le difficoltà da cui voleva essere liberato, assicura la sua benevolenza? (2Cor 12,7-10).
Suor Filippa Castronovo, fsp |