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MICHEA:
IL SAGGIO E UMILE
PROFETA CONTADINO
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Il nome “Michea” indica una domanda retorica sull’identità di Dio. Significa infatti: “Chi è come Dio?”. Sono due i profeti che portano questo nome. Il primo visse sotto il regno di Acab nel IX sec. a.C (1Re 22,9). Fa parte dei profeti non scrittori, come Natan (2Sam 7 e 12); Gad (2Sam 24,11); Ahia (1Re 22,8); Elia (1Re 17,1-2Re 2,12-12), Eliseo (2Re 1-13). Mentre il profeta Michea, del quale possediamo il libro omonimo, è originario di Moroset, un villaggio agricolo nei pressi di Gerusalemme. Visse e operò al tempo di Iotam, di Acaz e di Ezechia, re di Giuda (cfr. 1,1), nel secolo VIII a.C. |
dei suoi concittadini che vivono una grave crisi religiosa e socioeconomica,per molti aspetti, simile alla nostra del III millennio d.C. Ai suoi tempi, come del resto anche oggi, la ricchezza è nelle mani di pochi potenti e tanti muoiono di fame. Michea denuncia senza timore i complotti dei latifondisti verso i poveri (2,1-5); i soprusi sulle vedove e sugli orfani derubati dal loro patrimonio (2,8-10); le frodi nel commercio (6,9-11); le rapine per strada (2,8); i giudici corrotti (3,11); l’indebolimento delle famiglie (7,5-6). I sette capitoli che formano il libro sono attraversati dal giudizio di condanna puntuale e da profezie di salvezza traboccanti di impensate speranze, che solo una visione di fede può far intravvedere. Dalla denuncia del peccato alle promesse messianiche I capitoli 1-3 presentano le cause di questa catastrofe: «Tutto ciò accadrà per l’infedeltà di Giacobbe e per il peccato della casa di Israele. Qual è l’infedeltà di Giacobbe? Non è forse Samaria? Qual è il peccato di Giuda? Non è forse Gerusalemme?» (cfr. 1,5-6). Le responsabilità dei capi sono gravi: avidi di campi li usurpano, bramosi di case se le prendono (cfr. 2,1-2). «I suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro» (Mi 3,11). Il libro di Michea si esprime con tre generi letterari: 1) l’oracolo di giudizio che è accusa concreta e dettagliata della colpa cui segue l’annuncio dell’inevitabile castigo; 2) la lamentazione come elegia funebre che anticipa la triste sorte del popolo e dei suoi capi; 3) il genere del “rîb” o “disputa giudiziaria”, molto frequente nei profeti, attraverso la quale la parte lesa cerca in tutti i modi di condurre il partner a rinnovare il rapporto di fedeltà. La denuncia è seguita dalla visione positiva dell’Israele futuro che, purificato dal male, accoglie le promesse messianiche e si apre alla speranza. A noi cristiani molto cara è la profezia sulla figura del Messia, che nascerà da Betlemme di Èfrata, e così, secondo lo stile di Dio che opera cose grandi attraverso i piccoli e gli umili, da un villaggio umile e sconosciuto uscirà colui che dovrà essere il dominatore in Israele (cfr. 5,1). L’evangelista Matteo la riporta all’inizio del suo Vangelo mostrandone il compimento. Ma mentre Michea (5,2) scrive «così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me», Matteo l’interpreta al presente: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda» (Mt 2,6.). Il Messia sarà il Pastore buono che si prenderà cura del suo popolo. Betlemme, cittadina umile, “casa del pane” e “casa del Messia”, sarà anche casa del povero, dell’orfano, della vedova e di ogni persona abbandonata, emarginata, sfruttata. Assieme al profeta Isaia, Michea riabilita Gerusalemme e ne chiarisce la vocazione: la città santa diventerà centro di attrazione per il pellegrinaggio escatologico dei popoli (cfr. Mi 4,1-5). Il culto e il cammino che Dio gradisce Insieme al vaticinio messianico (Mi 5,1-3) che meditiamo nel Tempo liturgico di Avvento, nel rito Latino troviamo un altro testo di questo profeta nel Venerdì santo, all’adorazione della croce meditiamo le domande struggenti: «Popolo mio che cosa ti ho fatto? » (Mi 6,3-5): sono le parole che Dio rivolge al popolo per farlo ravvedere. L’intero brano 6,1-8 – da leggere e meditare – è uno dei più citati del profeta e ripresi anche nel Nuovo Testamento soprattutto nei riguardi del culto che Dio gradisce (cfr. Mt 23,27; Rom 12,1-2). Tre sono i protagonisti di questo brano: a) Dio che interroga il popolo infedele; b) il popolo che s’interroga su come e con quali riti debba presentarsi a Dio; c) infine, il profeta, che indica al popolo la strada da percorrere per rinnovare il rapporto di alleanza nella fedeltà con Dio. Importanti sono i quattro verbi “Ascoltate!”, “Rispondete!”, “Ricordate!”, “Riconoscete!” della prima parte (Mi 6,1-5), perché mostrano che la fede è camminare (vivere!) secondo Dio. Il verbo ascoltare è fondamentale: si ripete tre volte: “ascoltate”, “ascoltino”, “ascoltate!”. Dio chiama a testimoni della sua bontà, i monti, i colli, la terra con le sue fondamenta. Invita, quindi, il “suo popolo” all’ascolto leale, perché solo esso stabilisce la relazione d’alleanza e fa permanere in essa. L’ascolto attento rinnova la memoria e suscita la risposta fedele. Le domande di Dio vanno diritte al cuore del popolo smemorato: «Popolo mio che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi! ». Dio vuole guarire la sua memoria malata così da fargli riconoscere il male che lo abita e riprendere a camminare con Lui. Forte è il richiamo all’ingresso nella terra promessa racchiuso nel verbo “ricordati” ripetuto due volte. Il popolo deve ricordare che Dio soltanto lo ha guidato e come sentinella l’ha fatto camminare di giorno e di notte, senza inciampare (cfr. Sal 120/121). Il comando “ricordati” non invita ad una rievocazione nostalgica del già vissuto, ma chiede di custodire nella memoria un evento del passato perché avendone compreso il significato si vuole rivivere “quell’esperienza di storia di salvezza” nelle nuove situazioni. Come, per esempio, Maria che custodisce nel suo cuore! Oppure il Magnificat, dove la memoria del passato permette a Maria di capire che l’azione salvifica di Dio continua nel presente. Alle domande di Dio, il popolo non risponde. Ma anziché riconoscere la sua infedeltà, s’interroga su che cosa deve presentare a Dio o che cosa deve fare per Dio in senso cultuale, come se la fede consistesse in opere e riti che lo accontentano. La ripetizione del pronome di prima persona “mi” (mi presenterò, mi prostrerò, mi presenterò, fino a giungere al “gli offrirò” forse il mio primogenito…) mostrano questa aberrante egolatria. Il male fondamentale del popolo consiste, infatti, nella scissione tra culto e vita morale, mentre devono sempre essere l’uno espressione dell’altro. Se non c’è questa corrispondenza anche il più grande gesto cultuale, staccato dalla vita, rischia di essere una sceneggiata. Praticare la giustizia Michea conclude questo oracolo in modo nuovo e inedito, perché passa dal particolare, il popolo di Dio, all’universale, cioè, l’umanità. La frase «Uomo ti è stato insegnato ciò che è buono» suscita la domanda: quale uomo? quando è stato insegnato? e da chi? Il passivo “ti è stato insegnato” rimanda a Dio, l’unico Maestro, che pone nel cuore di ogni persona, che viene al mondo, il desiderio e la ricerca di lui. La persona umana è vocazione a Dio. Al suo popolo, in particolare, ha dato la sua parola perché la vivesse e testimoniasse. Essa «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,1-14; cfr. Bar 4,4). Ed ecco il primo impegno per vivere senza timore il tempo della crisi e capire il buono che Dio gradisce: praticare la giustizia. Cioè, accettare e amare la fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani che riguarda la loro dignità e i diritti fondamentali, eliminando – come esorta papa Francesco – la “cultura dello scarto” e la “malattia dell’indifferenza” presente in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Secondo passo: amare la bontà. Nel testo ebraico la parola bontà è retta da hesed che denota l’impegno nel realizzare rapporti solidali, fedeli, gratuiti. Richiama Rut che per solidarietà verso Noemi, vedova, anziana e povera in terra straniera, la segue, facendosi lei stessa straniera: «Sii benedetta dal Signore, figlia mia! Questo tuo secondo atto di bontà è ancora migliore del primo» (Rut 3,10). Il suo gesto è bontà concreta, amore profondo, che la rende capace di lasciare le sue certezze, il suo paese e di porsi in un cammino nuovo, come emigrata, portatrice di benedizione! La pratica della giustizia, secondo Dio, è, perciò, espressione di amore concreto, contestualizzato, che si confronta, anzi si converte alla realtà. Il “camminare umilmente con il tuo Dio” richiama Michea 2,3 dove il profeta afferma che il popolo cammina a testa alta e per la questa superbia si tiene lontano da Dio. “Camminare umilmente con il tuo Dio” a noi richiama la “continua conversione” frutto dell’umiltà del cuore che fa riconoscere le proprie e l’altrui fragilità, ci libera dal camminare dietro riferimenti che non sono Dio e ci fa accogliere la sua infinita misericordia nella nostra vita. Il capitolo conclusivo risponde, infine, alla domanda su chi è Dio contenuta nel nome Michea e si pone come consegna da meditare. La risposta a tale domanda è: «Dio è colui che perdona, che fa grazia per sempre » (Mi 7,18-19) al punto che si può riassumere nella certezza “La grazia del Signore è per sempre”. Questa è la certezza che infonde coraggio, rialza e fa camminare in novità di vita! PER LA RIFLESSIONE PERSONALE 1) Rileggi attentamente Michea 6,1-5 soffermandoti sui verbi: ascoltare, rispondere, ricordare, riconoscere (da cui ringraziare). In che senso questi verbi ci permettono il cammino che Dio gradisce e ci fanno “Protendere sempre in avanti” come il nostro Fondatore ci ripeteva? 2) In che senso il “camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8) richiama l’invito a “vivere in continua conversione” come tensione a far convergere la nostra vita soltanto su Cristo Gesù? «La conversione per essere totale si opera prima nella mente … Chi potrebbe essere umile se non ha pensieri umili in primo luogo? … Che cosa valgono le genuflessioni degli orgogliosi, quando si piegano le ginocchia e non si piega la testa, cioè non si fa l’atto di fede…. Allora manca il sentimento del cuore, manca il “mi umilio”» (Alberione, Alle Figlie di San Paolo 1955, pp. 55-56 [25.1.1955]). Come possiamo vivere l’impegno nella “continua conversione” giorno dopo giorno? Suor Filippa Castronovo, fsp |