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IL LIBRO DI GIOBBE
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La ricerca e il volto della sapienza

A partire dal capitolo 20 inizia un secondo ciclo di discorsi che si concludono con le parole di Zofar che ripete la teoria secondo cui il malvagio viene punito. Giobbe mostra che i fatti provano il contrario e afferma che non ha senso chiudere gli occhi dinanzi alla realtà, anzi la verità va cercata anche a prezzo della vita. Gli eventi che lo riguardano sembrano mostrare che Dio è cattivo ma Giobbe sa, invece, che Dio è buono e nella prova non vuole cambiare le sue convinzioni. Anziché chiudere gli occhi dinanzi alla realtà cerca la verità lottando direttamente con Dio perché si riveli buono e giusto.A partire dal capitolo 28 – ritenuto dagli esegeti un’aggiunta ulteriore – Giobbe inizia una profonda riflessione che indaga sulla vera sapienza perché ha notato che essa è sconosciuta ai tre amici che, avendo vedute corte, lo accusano di peccato. È sconosciuta pure a Giobbe che non trova risposte ragionevoli al suo dolore. Egli è certo che Dio lo colpisce ma non ne comprende le ragioni. Le riflessioni sulla ricerca della sapienza sorprendono per la loro attualità. Giobbe si domanda: quale è la vera sapienza e dove si trova? Forse nella tecnica? Forse nel commercio? La tecnica ed il commercio sono due realtà che caratterizzano pure la nostra società e per molti costituiscono un valore assoluto. Giobbe, mentre le apprezza, le relativizza: «Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?» (28,12). La tecnica, di fatto, porta alla luce ciò che già esiste ma non è la via della Sapienza perché essa non esiste in un luogo del cosmo da poterla estrarre (28,13-20). Lo stesso il commercio: l’uomo può comprare le cose preziose che sono estratte o dalla terra o dal mare ma non può comprare la sapienza, che non è oggetto di scambio economico (28,13-20). I sapienti della Bibbia avvertono che la sapienza è preferibile alle perle e all’oro (cfr. Prov 3,14-15; 8,11; 16,16). Dove e come cercarla per entrarne in possesso? Giobbe conclude che solo Dio l’ha scoperta. Lo si evince dall’ordine che ha posto nella creazione: «allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno» (28,27). Soltanto Dio, dunque, può rivelare la Sapienza all’uomo che la cerca con tutto se stesso. Di qui la profonda conclusione: «Ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza» (28,28).

Giobbe conclude la sua difesa

Nei capitoli 29-31, Giobbe conclude la sua difesa in tre passaggi: dopo aver fatto memoria del suo passato felice (Gb 29) si sofferma sul suo stato di sofferenza ingiusta (Gb 30) per ribadire la certezza della sua integrità morale (Gb 31). Il capitolo 31 è un profondo esame di coscienza con il quale Giobbe si esamina non solo sul contenuto dei Dieci Comandamenti, ma su quattordici punti per scrutare anche i movimenti del cuore che sfuggono ai precetti o non sono da essi considerati. In un certo senso vive l’insegnamento di Gesù quando invita ad esaminare il cuore e i pensieri (cfr. Mt 5,28). Se Giobbe avesse commesso una o l’altra colpa dovrebbe aver paura del giudizio di Dio (Gb 31,14.23.28) invece lo desidera. Di qui lo sfogo coraggioso e sincero nel quale si presenta con la nobiltà di un principe: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! / Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! / Il documento scritto dal mio avversario… / Gli renderò conto di tutti i miei passi, mi presenterei a lui come un principe» (Gb 31,35-37).
L’esclamazione conclusiva di Giobbe dichiara che il giudizio di Dio non può contraddire quello della coscienza profonda dell’uomo (cfr. 1Cor 4,4). La sua riflessione fa zittire gli amici.
Interviene Eliu, il più giovane, pieno di sdegno perché Giobbe si considera giusto di fronte a Dio. Nel suo lungo discorso non aggiunge nulla di nuovo e di decisivo al dibattito.
Dio, finalmente, risponde: «Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? » (38,1-2).
Dio gli risponde con delle domande: “Dove eri tu?”; “Che cosa sai tu?”; “Che cosa faresti tu…?”.
Queste domande possono sintetizzarsi in un’unica domanda: “Che cosa sai tu della mia opera immensa, potente, fantasiosa e sempre ricca di fascino?”.
Lo fa passando in rassegna la bellezza straordinaria del creato e il comportamento misterioso e stupendo degli animali, che decentrano Giobbe dalla sua angoscia. Conosce le stelle, la neve, la brina, i leoni, i camosci, perché vivono nel mondo dove egli abita ma deve ammettere che non può spiegarsi il loro “come” e “perché”. Dinanzi a tanta meraviglia è costretto a ritenersi ignorante e incapace di giudizio. Giobbe mostra che la persona umana non può capire tutto e, dinanzi a ciò che per la sua intelligenza è mistero, deve fermarsi e riflettere. Solo fermandosi può comprendere che la sofferenza non si può spiegare e non si risolve accusando l’uomo e Dio. «Il Signore prese a dire a Giobbe: “Il censore vuole ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda!”» (Gb 40,1-2). Giobbe, dinanzi alla sapienza che Dio manifesta nelle sue opere, ammette di riconoscersi piccolo come un granello di sabbia e umilmente confessa: «Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò» (Gb 40,4-5).

Il grande problema umano: accettare di essere fragili

Il Signore di nuovo gli risponde di mezzo al turbine (cfr. Gb 40,6) con altre domande che verificano il suo ragionamento.
Comincia con il descrivere i mostri Beemot e Leviatan, identificati nell’ippopotamo e nel coccodrillo, animali indomabili che vivono nel Nilo. Giobbe sarebbe capace di domarli? E se non può domare questi esseri, sarebbe capace di far sparire coloro che commettono ingiustizie che sono persone umane come lui? Il potere divino si esercita invece anche su questi mostri e, nonostante la loro forza malefica, il Signore li fa vivere. In pratica, Dio smonta le difese di Giobbe nei confronti del male ingaggiando una sfida: “Scambiamoci le parti, tu mi accusi di non comportarmi come Dio? Risolvi tu il problema del male, se sei capace e io ti loderò!”. La ricerca dolorosa della verità di Giobbe tocca il problema centrale e decisivo della persona umana che, non ammettendo di essere creatura fragile, crede di essere il centro del mondo e pretende che Dio sia diverso da come si manifesta. Il problema di Giobbe è il problema dell’umanità di ogni tempo che si domanda: “Perché Dio ha fatto o perché ha permesso questo?”. Giobbe capisce che la potenza di Dio non è come noi la vorremmo: nella sua bontà non risolve i problemi con la bacchetta magica, ma li risolve entrando nella debolezza umana per renderla forte. La sua potenza converte i cuori. Il libro di Giobbe insegna che con Dio non si può competere, ma si può parlare e pure gridare per avere soltanto da Lui le risposte alle nostre domande di senso. La vocazione fondamentale della persona umana si sintetizza nel cercare senza stancarsi le ragioni del vivere, del soffrire e del morire. Questa inderogabile caratteristica scandisce anche il Nuovo Testamento (in particolare il Vangelo di Giovanni) che si sviluppa intorno alla domanda di Gesù: “che cercate” (Gv 1,35-39); “chi cercate” (Gv 18,4.7-8), “chi cerchi” (Gv 20,15) rivolta agli uomini e alle donne per aiutarli a trovare la risposta giusta alle loro attese o per correggere gli errori della loro ricerca (cfr. Mt 28,5; Mc 16,6; Lc 24,5). La fede ebraico-cristiana esclude la rassegnazione perché essa è cammino che si compie nella storia in continuo cambiamento e matura nel dialogo con Dio perché, come dice s: Agostino, da sempre «il cuore dell’uomo è inquieto finché non riposa in te».

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

1) Soffermati sulle considerazioni di Giobbe riguardo alla tecnica e al commercio (Gb 28,1-29) e domandati: che cosa e come fare per convincerci che la felicità e la sapienza non provengono dal fare cose straordinarie e dall’avere tutto ma nel dare al Signore il primo posto nella vita?

2) Giobbe ricerca fino allo spasimo il perché del suo dolore ma non perde la certezza che Dio è buono e dinanzi alla bellezza del mondo afferma: “Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere?”. Che tipo di fede Giobbe vive? Chi ti ricorda? (cfr. Lc 23,40-46; Rom 15,30-31; 2Cor 12,1-10). Vedi una relazione con la preghiera paolina del “Patto” o “segreto di riuscita”?

Suor Filippa Castronovo, fsp