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GIOBBE IMPARA DA DIO LA LEZIONE
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Il capitolo 42 sintetizza la lezione che Giobbe imparò da Dio quando parlandogli attraverso il creato ne vide la bontà. La sua ostinazione, divenuta lotta per capire l’impossibile, si trasforma in un umile atto di fede: «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2). Ancora immerso nella sofferenza, riconosce che il suo sapere, dinanzi all’onnipotenza di Dio, svanisce come neve al sole. Comprende, soprattutto, che a Dio nulla è impossibile perché non ha limiti e nessuna cosa può bloccare la sua azione. Siamo dinanzi all’importante filo rosso che scandisce la Bibbia e mostra Dio come colui che rende possibile l’impossibile. Dal seno avvizzito di Sara nasce il figlio della promessa perché: «C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? (Gen 18,14). Sulla certezza che “Nulla è impossibile a Dio” Maria basa il suo sì deciso e convinto allo sconvolgente progetto di Dio su di lei (cfr. Lc 1,37). Giobbe capisce che tutto il suo argomentare su Dio si rivela vuoto e anziché chiarirne il piano meraviglioso, di fatto, lo aveva oscurato. Discuteva di realtà più grandi di lui; impossibili a

comprendersi con il solo ragionamento umano. E allora umilmente confessa: «Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo» (Gb 42,3). Lui simile a un granello di sabbia pretendeva di spiegare il mare! La sofferenza immensa non gli permetteva di capire la giustizia di Dio e d’altra parte, da vero credente, non poteva accettare che Dio fosse crudele. Desiderava conoscere, fino allo spasimo, perché Dio gli avesse inflitto quel trattamento. Voleva essere ascoltato e ricevere da Dio soltanto la risposta e non dagli amici ciarlatani. A Dio che gli ha parlato, mostrandogli la bellezza del creato e la sua provvidenza nel mantenerlo in vita, Giobbe confessa di aver compreso bene la lezione. Il suo atteggiamento si fa discepolare: “Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai!” (42,4). La sua intransigenza era dovuta al fatto che conosceva Dio “di seconda mano”, cioè, per sentito dire. La vera conoscenza è, invece, esperienza che crea relazione: «Io ti conoscevo solo per sentito dire. Ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). I suoi occhi non hanno visto Dio direttamente ma hanno visto che il mondo creato da Dio è bellezza e non caos. E se Dio lascia agire le forze del male non è per questo ingiusto e crudele. La conoscenza per sentito dire è, invece, mediata da altri. Ora sa che solo la relazione con Dio permette di vederlo e di sperimentare la sua bontà. Il “vedere Dio” come “esperienza di Dio” caratterizza molti testi del Nuovo Testamento, in particolare il quarto Vangelo. Gesù ai discepoli, che vogliono conoscerlo, dice: “Venite e vedrete!”. Vedranno nel futuro in proporzione alla loro comunione con il Maestro. Quando Maria di Magdala riconobbe la voce del Signore risorto e andò ad annunciare ai discepoli la risurrezione, disse loro: «Ho visto il Signore!» (Gv 20,18). Paolo a sua volta interpreta la sua particolare ‘conversione’ come un “vedere il Signore” che volle “farsi vedere” (1Cor 9,1; cfr. 1Cor 15-1.11).
Il vedere Dio come esperienza della sua presenza non ha nulla a che fare con le nozioni su Dio che sovente lo riducono a un notaio e interpretano la fede come rapporto commerciale: “do ut des” (cioè il dare per ricevere).

Il limite si fa ricchezza

Giobbe, modello esemplare del credente che interroga Dio, testimonia che la persona umana è attraversata da molti limiti: temporale, solo Dio è da sempre; spaziale, solo Dio è ovunque; conoscitivo solo Dio possiede la Sapienza; del potere, solo Dio può fare tutto anche ciò che a noi è impossibile. Solo quando Giobbe riconosce questi limiti sperimenta la bontà di Dio e raggiunge la verità su se stesso di essere creatura fragile e, pertanto, non accetta di non potersi ritenere il centro del mondo. L’unica strada per risolvere il problema di sapere chi è Dio è incontrarlo direttamente. Giobbe, contemplando il creato nella sua grandezza (anche terribile), si rende conto che non aveva capito nulla del piano di Dio e con umiltà rinuncia alle sue ragioni. La messa in discussione delle sue rigide convinzioni esalta la sua grandezza spirituale di giusto soffrente che desidera “vedere” Dio. Capisce di non poter capire e accetta che il mistero lo superi e lo sorprenda. È importante notare che Giobbe afferma che i suoi occhi hanno veduto Dio, mentre è ancora malato e nella disgrazia. Fa esperienza di Dio da malato, vicino alla morte, senza capire nulla del male che lo affligge. Mentre gli amici lo accusavano, Dio non lo accusa di colpa alcuna, anzi, apprezza il suo cammino faticoso e sincero. Gli mostra, però, l’errore di aver messo in discussione il suo progetto. Il personaggio di Giobbe ci insegna che Dio desidera che ci rivolgiamo a lui con amore quando soffriamo, vivendo una ricerca anche dolorosa del suo Volto ma con coraggio, fede robusta e senza compromessi che falsificano la realtà. Questa è la via che permise a Giobbe di incontrare Dio in modo nuovo, al punto da ricredersi: «Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (Gb 42,6). Il suo ricredersi, a noi membri della Famiglia Paolina ricorda la consegna del nostro Fondatore: avere «il dolore dei peccati» (AD 158), cioè riservate sempre a Dio il primo posto nella vostra vita, riconoscendo la vostra insufficienza in tutto, così che essa sorretta da Dio si trasformi in grazia.

Giobbe, servo di Dio, strumento di riconciliazione

Giobbe dopo aver incontrato Dio accetta il suo annientamento. La sua esperienza di Dio non termina nella ritrovata pace ma si trasforma in vita nuova anche per i tre amici che lo avevano duramente giudicato e accusato di peccato. Lo vuole Dio che, dopo averli rimproverati perché si erano permessi di giudicare e accusare Giobbe, chiede loro un sacrificio di espiazione. Giobbe dovrà pregare per loro. Così mentre gli amici sacrificano, Giobbe intercede (Gb 42,9). Giobbe, dunque, si riconcilia con Dio e con i tre amici e questi si riconciliano con Dio e con Giobbe. La conclusione accentua la vera identità dei personaggi dinanzi a Dio: Giobbe che era ritenuto “bestemmiatore” e “colpevole” è proclamato il “mio servo” (cfr. 42,7.8); i tre amici che si ritenevano sapienti sono definiti pieni di “stoltezza” (cfr. 42,7) e, solo grazie alla preghiera di Giobbe, Dio non li punisce. «Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io, per riguardo a lui, non punirò la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42,8b). Giobbe riconciliato con Dio entra nella sua benedizione e diventa benedizione per gli altri. Ora che vede Dio, perdona come perdona Dio, come perdonerà Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Conclusione del libro

Il libro di Giobbe, in realtà, non risponde al problema del male e della sofferenza ingiusta. Giobbe, di fatto, acquista la pace mentre è ancora nel dolore! La risposta, se c’è, è esperienziale. Giobbe sembra voler dire: “Se volete capire il senso del dolore e della morte, dovete entrarvi e attraversarlo continuando a credere che Dio è buono. A patto però di cambiare il cuore e accettare che Dio è Dio”. Ci ricorda Papa Francesco: «Per vedere Dio non serve cambiare occhiali o punto di osservazione, o cambiare autori teologici che insegnino il cammino: bisogna liberare il cuore dai suoi inganni! Questa strada è l’unica» (1° aprile 2020). Giobbe è il sofferente che lotta, che grida, che chiama senza paura la realtà con il suo nome, perché ha fede e vivendo la crisi della fede ne esce esaltato da Dio stesso. Ci insegna che il dolore, il male, la cattiveria e, persino, il peccato, possono, anzi devono, essere vissute come occasioni provvidenziali per purificare la nostra fede. Proprio queste situazioni ci fanno domandare: Chi è il mio Dio? Come mi rivolgo a lui? E come Giobbe possiamo ricevere il dono di capire che Dio non coincide con i nostri ragionamenti umani. «Ora i miei occhi ti hanno veduto»: ora che sono nel dolore. In questa logica di resa a Dio nella fede, possiamo scoprire che il volto del Dio cristiano si rivela in quello sfigurato di Gesù in croce. In realtà, il libro termina mostrando che «Il Signore ristabilì la sorte di Giobbe»: ebbe altri figli e visse a lungo (cfr. Gb 42,10ss). Gli esegeti notano che questo epilogo è tipico della conclusione delle favole. La caratteristica importante dell’epilogo è la riconciliazione. Dove vi è riconciliazione vi è vita vera, benessere e fraternità. Il problema della sofferenza del giusto non ha risposte come rimane pure la fatica a comprendere il piano di Dio.

Giobbe figura di Cristo in croce

L’autore sacro nel mostrare Giobbe come il giusto sofferente pur non avendo peccato, pone la problematica del dolore a limiti incomprensibili. Proprio questa immagine estrema permette di vedere nella figura di Giobbe, Cristo Gesù il giusto per eccellenza (cfr. At 10,38), che attraversò gli spasimi della morte, ma il Padre al terzo giorno lo risuscitò.
Chi meglio di Giobbe, tra i personaggi dell’Antico Testamento, prefigura il grido di Gesù sulla Croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34b). Ecco perché dalla fine del IV secolo gli autori cristiani accostano Gesù a Giobbe, ritenendolo annuncio e profezia di Cristo sofferente. La morte e risurrezione di Gesù assicura che il vero colpevole della nostra sofferenza è il male causato dal peccato contro il quale il Figlio di Dio ha combattuto per liberarci. In particolare, Gregorio Magno alla fine del VI secolo approfondisce l’idea che Cristo è il modello dei cristiani e nello stesso tempo afferma l’unione di Cristo e della Chiesa. In questa ottica ciò che nel libro si riferisce a Giobbe si riferisce a Cristo e in Cristo anche ai suoi discepoli. Giobbe insegna che possiamo non capire il dolore e il ruolo di Dio in esso ma possiamo viverlo nella fede. Noi cristiani vivendolo in Gesù possiamo renderlo un servizio di amore per il bene dell’umanità.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

1) Confronta le parole di Giobbe: «Mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» con AD 158 e domandati: che cosa comunica alla mia vita la “conversione” di Giobbe alla luce delle parole del nostro Fondatore? Come vivo in “continua conversione”?

2) Dio definisce Giobbe “mio servo” mentre considera stolti i tre amici che lo accusavano di peccato. Al termine del nostro percorso, dove e come noti la rettitudine di Giobbe? Dove e come si manifesta la stoltezza dei tre amici? Elenca alcuni aspetti.

3) Puntualizza gli aspetti di Giobbe che ti richiamano i tratti di Gesù, servo giusto e sofferente. Quale tratto ti interpella di più in questo momento della tua vita?

Suor Filippa Castronovo, fsp