Si domanda, allora, come può essere possibile che Dio agisca con violenza disprezzando l’opera delle sue mani? Come può essere possibile che, sapendolo innocente, cerchi in lui il peccato? Prosegue ricordando a Dio, con parole accorate, il contrasto immenso tra la sua cura nel plasmarlo nel seno di sua madre e la situazione che vive, cercando di commuoverlo: «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte: e ora vorresti distruggermi?» (10,8). Come è possibile che Dio cambi la sua faccia? «Eppure, questo nascondevi nel cuore, so che questo era nei tuoi disegni!» (cfr. 10,13).
Comunque sia, Giobbe sente che Dio come un leone moltiplica i suoi attacchi verso di lui: «Se lo sollevo, tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me» (cfr. 10,16). Ed esclama: «Se fossi morto nel seno di mia madre sarei passato direttamente nella tomba» (cfr. 3,11). È vivo e ha bisogno che Dio si allontani per avere un po’ di pace prima di passare nello sheol (cfr. 7,16; 10,18-22).
Giobbe se la prende con Dio che non gli ha mosso nessuna accusa. Lo fa perché è certo di non meritare la prova che sta vivendo e, dovendo individuare un colpevole, lo trova in Dio che lui, invece, ha servito fedelmente!
Il tentativo di attribuire la colpa a Dio non gli procura serenità, non lenisce le sue ferite, non lo rassicura e Giobbe rimane con la sua sofferenza e con le sue domande.
Contro gli amici ciarlatani
Interviene, infine, Zofar che conferma la sua colpevolezza (cfr. 11,13ss) e lo esorta a supplicare Dio, ammettendo la propria colpa.
Giobbe contesta questa sapienza e asserisce che ne sa quanto loro: «Anch’io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi; chi non sa cose simili?» (12,3; cfr. 13,2).
Giobbe, anzi, conosce più di loro l’agire di Dio che supera ogni sapienza, ma sa che possiede una potenza umanamente incontrollabile. Essa produce disastri e cambia le sorti, rovescia i potenti di questo mondo. «Toglie la parola a chi si crede sicuro e priva del senno i vegliardi» (cfr. Gb 12,11-25).
Come è possibile continuare a credere che Dio sia garante della giustizia, quando la realtà concreta dimostra il contrario (cfr. Ger 12,1; Ab 1,2-4.13)?
I tre amici che difendono Dio sarebbe meglio che tacessero per ascoltare la sua difesa senza interromperlo. La loro presenza potrebbe essere soltanto quella di testimoni silenziosi.
Giobbe si rivolge a Dio con una serie di domande: Perché l’aggredisce e per quale colpa, considerato che è unicamente paglia secca che il vento porta via (cfr. Gb 13,23-27)? Dio inquisisce un uomo che ha vita breve e piena di miserie?
La riflessione/preghiera scava fino in fondo il suo dolore e si esprime nell’immagine evocativa dell’albero che tagliato emette nuovi ceppi al contrario dell’uomo che se muore non ritorna più (Gb 14,7-12). L’accanimento di Dio è fuori misura perché l’uomo è niente, anzi uno che passa e non tornerà più.
Giobbe, allora, consiglia a Dio, in attesa che la sua collera cessi, di nasconderlo in un rifugio provvisorio, anche nello sheol: «Oh, se tu volessi nascondermi nel regno dei morti, occultarmi, finché sia passata la tua ira, fissarmi un termine e poi ricordarti di me!» (14,13).
Nel buio tenebroso una tenace speranza
In questo luogo di tenebre, Giobbe rimarrebbe tranquillo fin quando Dio, sicuramente, si ricorderà di lui e gli userà benevolenza.
La sua sofferenza immensa si fa grido di dolore che non gli strappa la certezza che Dio l’ha amato e benedetto, ma continua ad amarlo: «L’uomo che muore può forse rivivere? Aspetterei tutti i giorni del mio duro servizio, finché arrivi per me l’ora del cambio! Mi chiameresti e io risponderei, l’opera delle tue mani tu brameresti» (Gb 14,14.15).
Bellissima l’immagine di Dio che, secondo Giobbe, ritornato a migliori sentimenti, ritroverà l’amico che si era nascosto. In questo ritorno, suscitato da Dio che brama l’opera delle sue mani, non si parlerà più di trasgressioni ma, al contrario, si realizzerà una nuova relazione interpersonale: tu chiami io rispondo! Giobbe spera in Dio; è sicuro che la sua amicizia non svanirà del tutto.
L’idea di un nascondimento temporaneo nello sheol è irrealizzabile. Giobbe si rende conto che la realtà smentisce la sua speranza e Dio, in effetti, logora la speranza dell’uomo come l’acqua che a forza di gocciolare sulla pietra la corrode.
Eppure osa sperare, oltre l’evidenza, finché questa speranza si fa spazio come un fiore nell’arsura del deserto. Si manifesta nei capp. 16, 17 e 19 che sono intercalati dal secondo ciclo di discorsi tra Giobbe e i suoi amici. A Elifaz che ribadisce la sua colpevolezza della quale sono prova le sue parole violente, Giobbe risponde facendo notare che consolare, come fanno i suoi amici, quando non si vive la sofferenza, può essere facile. «Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi» (cfr. 16,4).
Il mio difensore è lassù
Dinanzi al giudizio rigido degli amici, Giobbe riafferma la sua innocenza perché è convinto che «non vi è violenza nelle sue mani e pura è la sua preghiera» (cfr. 16,17). Proprio da questa certezza riaffiora forte la speranza: «Fin d’ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù» (16,19).
Giobbe è sicuro che Dio deporrà a suo favore perché sa che il suo servo è innocente. In un certo senso si scontrano le due immagini di Dio presenti nel libro: quella del Dio buono che riconosce la rettitudine di Giobbe e quella del Dio vendicativo che l’aggredisce.
Pian piano l’esperienza del Dio buono soppianta l’immagine del Dio cattivo, che è pura proiezione delle rigidità umane (16,21). Giobbe nel mettere Dio contro Dio, intuisce il mistero della sofferenza di cui non si comprende la causa e si attribuisce a Dio pur nella certezza della bontà di Dio.
Avendo scoperto questo duplice volto di Dio, si appella al Dio della giustizia e della bontà. Soltanto Lui che gli ha inflitto la sofferenza e conosce l’innocenza del suo servo, può essere il testimone fedele che farà trionfare la giusta causa. Giobbe si affida alla lealtà di Dio che sente vicino e lo considera amico fedele.
La sua esperienza di Dio è molto lontana da quella degli amici che lo angustiano (17,1-2) e poiché si sente morire, domanda a Dio non di farlo morire ma di intervenire come il garante che versa l’ammontare del debito: «Poni, ti prego, la mia cauzione presso di te; chi altri, se no, mi stringerebbe la mano?» (17,3).
L’immagine del garante allude alle usanze giuridiche del tempo (cfr. Prv 1,1-2) quando il garante, dopo avere versato la cauzione a favore del debitore, doveva battere nella sua mano, alla presenza del creditore. I suoi amici mai avrebbero prestato una cauzione per lui.
A Giobbe rimane soltanto Dio al quale domanda di compiere una duplice azione: quella del garante che anticipa la somma e del creditore che riceve. Con questa immagine chiede a Dio di mettersi al suo posto, nei suoi panni, dalla sua parte.
Questa invocazione, letta alla luce del Nuovo Testamento, rimanda al mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio che si mette nei nostri panni e si fa carico dell’umanità bisognosa della benevolenza di Dio.
Bildad comprende che Giobbe è in collera con loro: «Perché ci consideri come bestie, ci fai passare per idioti ai tuoi occhi?» (18,3). E lo giudica peccatore meritevole di castigo. Giobbe mostra di essere stato lasciato solo da tutti, anche dai suoi amici che si accaniscono contro di lui.
Nel colmo dell’angoscia una speranza più forte sgorga dal suo cuore e così urla di fiducia: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,25-27).
È una confessione di fede audace con la quale Giobbe confessa che Dio è il suo “redentore” (il parente prossimo che paga il riscatto) e lo vedrà direttamente. Quando? San Girolamo nella traduzione latina propose l’aldilà e pensava pure alla risurrezione.
L’esegesi moderna, in base a Gb 42,5: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» ritiene che Giobbe vedrà Dio nella sciagura perché Dio lo salverà in tempo.
Gli amici con i loro discorsi lo hanno esasperato. Giobbe nel dolore, intuisce, che solo Dio che lo ha colpito può pure salvarlo.
PER LA RIFLESSIONE PERSONALE
1) Giobbe che dialoga, discute, litiga con Dio quale volto di Lui vuole incontrare? Con quali immagini lo evoca? Che richiamo può esserci tra l’espressione: «Volontà di Dio è il gran sole cui l’anima, come girasole, deve sempre star rivolta» (Alberione, DF 20) e la ricerca di Giobbe?
2) Leggi, in preghiera, Giobbe 16,18-22; 17,3; 19,25-27 e domandati: che cosa mi suggerisce il suo ripetuto grido di speranza? Che cosa la rende possibile? Confrontala con questa frase: «La speranza è buona perché si appoggia alla onnipotenza, alla misericordia, alla fedeltà di Dio: onde sempre certa tanto per il giusto che per il peccatore» (cfr. Alberione, DF 71).
Suor Filippa Castronovo, fsp
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