ci deve portare alla penitenza. Sebbene non obbligati al digiuno, per lo più, per la vita di lavoro che avete, siamo sempre obbligati alla penitenza e “se voi non fate penitenza perirete tutti” (cfr. Lc 13,5). Che cosa, dunque, ci vuole e che cosa è questa penitenza? Occorre pensare alle parole che stanno scritte: “Cor poenitens tenete”: abbiate il dolore dei peccati (cfr. AD 152). La penitenza non è soltanto un atto; ad esempio si fa quella penitenza che è imposta dal confessore, prima dell’assoluzione: saranno tre Ave Maria; sarà leggere un tratto del Vangelo, un capitolo dell’Imitazione di Cristo; sarà lo studio di una pagina di catechismo o la lettura di alcuni articoli delle Costituzioni o un’altra penitenza simile. Quella è un “atto” di penitenza. Invece, dobbiamo, in primo luogo, aver la “virtù” della penitenza. Portate in voi un cuore pentito: “cor poenitens tenete”. Significa: avere abitualmente in noi la confusione per i nostri mancamenti. E poi conservare l’umiltà, perché siamo stati peccatori, siamo colpevoli, e quindi il desiderio unito di non offendere più il Signore. È una disposizione di animo, questa, una virtù, in sostanza, che inclina al pentimento dei peccati e alla confusione che ne viene per averli commessi e, insieme, una volontà di non commetterne più in avvenire, adoperando i mezzi per evitarli, i peccati e, nello stesso tempo, ripararli, ripararli; ecco, è una virtù. Si dice: facciamo atti di virtù: fede, speranza e carità. Ma aggiungiamo: contrizione o dolore. Però che non sia una formula che si recita in un momento o nelle orazioni o nell’atto in cui ci si confessa, ma sia una virtù abituale, continuata, da non confondersi con un atto. Perché può essere che uno faccia un atto di penitenza: ho parlato troppo, adesso mi castigo un po’ e in questo momento, ancor che potrei parlare, faccio silenzio; oppure: si è mancato di riguardo a una sorella e si va a chiedere scusa. Sono atti di penitenza. La virtù, però, principalmente, la quale consiste in quattro atti.
Primo atto: nello spirito di fede, conoscere con la meditazione, con la preghiera, quanto sia stato grave il male di aver offeso Iddio, di aver peccato, o si tratti di peccati gravi o si tratti pure anche soltanto di peccati veniali. Un’offesa a Dio, a Dio Padre, un disgusto; a Dio, un’ingratitudine nera nell’usare la mente o le mani o il cuore o la lingua nell’offendere Iddio che ci ha dato queste membra. Ingratitudine. Peccati che sono la causa della morte di Gesù Cristo. E ogni volta che solleviamo gli occhi alla croce, al Maestro Divino che soffre e paga i nostri peccati, abbassare poi gli sguardi: io, io sono il colpevole; io sono la causa delle sofferenze di Gesù coi miei peccati. E poi considerando anche che il peccato veniale acconsentito, volontario, deliberato, priva delle grazie. E allora quante incorrispondenze alle grazie avute; e allora, tanto il veniale, come il mortale, e specialmente il mortale, quali abitudini creano in noi: inclinazioni sempre più vive al peccato, al male. E pensare inoltre che, chi muore in peccato grave si condanna all’inferno. E chi muore col peccato veniale, con l’abitudine a certe venialità, eh, va al purgatorio e prima di essere ammesso al cielo, dovrà pagare fino all’ultimo centesimo le pene meritate.
Ecco, pensare al peccato, capire il male che è, questo è il primo atto della virtù della penitenza o la disposizione interiore che dobbiamo avere in noi. Secondo: questo peccato non è da considerarsi in generale, così, teoricamente, ma il peccato in noi, il nostro peccato, le nostre offese fatte a Dio. Non il peccato che si può commettere da altri, ma quello che abbiam commesso noi. E allora, un esame sulle trasgressioni passate. Si potrà dire: “Ma son già state confessate, quindi sono persuaso del perdono”. Eh, bisogna aver questa fede nell’articolo del Credo: “credo la remissione dei peccati”. Sicuro. E non si cada in scrupoli. Ma è però vero che si è commesso: “Il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Sal 50,5): sempre lo ricordo per umiliazione e confusione. Perché, se tu hai offeso il Padre e poi hai chiesto perdono e il Padre ti ha perdonato, sei rientrato nella sua amicizia, nell’affetto col Padre, tra te e il Padre. Però è vero che l’hai offeso un giorno, sebbene perdonato. E allora sempre stare nell’umiltà: io veramente l’ho offeso, quella volta, l’ho disgustato. E perciò starò davanti a lui con rispetto, con umiltà. “Non son degno di esser chiamato figlio – diceva il prodigo ritornando dal Padre – ritienimi come un servo” (cfr. Lc 15,19). Quante volte bisogna abbassar la testa e dire: ho macchiato la stola battesimale. E perché questa stola sia di nuovo candida, ho dovuto lavarla nel sangue di Gesù Cristo; ecco.
Allora, considerare il peccato nostro che può essere di orgoglio, può essere un attaccamento, può essere l’ira, può essere l’invidia, può essere la lussuria, può essere la golosità, può essere la pigrizia, può essere l’indelicatezza, può essere la freddezza, può essere la curiosità, può essere il peccato di lingua, come può essere il peccato di pensiero. Ecco: ricordarci che siamo dei peccatori; quei peccati sono nostri, sebbene perdonati, sono nostri. Terzo: per la virtù della penitenza si richiede che si venga a risoluzioni: non lo commetterò più il peccato; e allora mi decido di vigilare: “vigilate et orate” (Mc 14,38). Vigilare sopra i miei occhi: “ne videant vanitatem” (Sal 118,37). Vigilare sul mio udito per non sentire quel che non piace a Dio, discorsi che non portano al fervore, magari discorsi contro la carità. Vigilare sulla lingua perché la lingua nostra parli quando si deve parlare, come quando ci si ha da confessare, anche che costi sacrificio, e taccia la lingua quando bisogna tacere. Vigilare sul cuore affinché ami Iddio e non ami cose inutili o cose cattive. Vigilare sul corpo, sul tatto, perché noi possiamo adoperarci nella fatica del servizio di Dio e non soddisfare la carne.
Vigilare sul gusto, affinché noi solo prendiamo il cibo per mantenerci nel servizio di Dio e nell’apostolato. Vigilarci. Particolarmente vigilanza su quelle occasioni che ci han portato al male. E pregare: “Vigilate et orate”. Pregare, perché se siamo stati deboli quando non avevamo mai commesso il peccato, dopo che si è commesso, si è più deboli, ancorché sia perdonato, perché si è cresciuta l’inclinazione al male, volontariamente. E allora occorre che noi preghiamo di più. Se non ci è bastato la grazia che avevamo allora, e adesso ne abbiam meritato meno, supplichiamo più umilmente e più fervorosamente la misericordia di Dio: “Signore, non mi basta quel grado di grazia perché ho finito col cadere; aumentami la tua misericordia, aumentami la tua grazia. Fa’ un atto di maggior misericordia “secundum magnam misericordiam tuam” (secondo la tua grande misericordia, cfr. Sal 50,3) perché ho bisogno di maggiore aiuto, per due ragioni: sia perché ero già debole e sia perché adesso son diventato più debole”.
E chi è orgoglioso, dopo che ha nutriti tanti pensieri di vanità, di orgoglio, di ambizione, eh, dopo davvero che ha bisogno di maggiore aiuto per stare umile. L’abitudine alla vanità, all’ambizione, a stimarsi di più di quel che si è, ecc., è difficile da sradicare. Ma confidiamo nella misericordia di Gesù eucaristico, del Cuore SS.mo di Gesù. Quarto atto di penitenza: inclinare a riparare, a restituire a Dio l’onore che gli abbiam tolto col peccato, ridonargli quella gloria che egli merita e che noi insensatamente abbiamo tolta a Dio, abbiam negata a Dio. Consolare il Cuore di Gesù per le nostre ingratitudini, per le spine che gli abbiam piantato nel cuore, a Gesù, con tante venialità e, nello stesso tempo, fare atti contrari a quello che si è commesso. Se si è peccato di occhi, dopo custodirli di più. Fare il contrario di quel che si è fatto peccando. Se si è mancato con la lingua, tenere la lingua a freno e vigilare per parlare a tempo e non parlare quando non è tempo e non dire mai cose che non piacciono a Dio. Fare il contrario di quanto abbiam fatto prima con la lingua.
Così, se abbiamo avuto dei pensieri inutili, frivoli e magari contrari alla carità, contrari all’umiltà, contrari all’obbedienza, dopo: pensieri di obbedienza, di carità, di umiltà, ecc. Il contrario di quel che abbiam fatto quando abbiam mancato. Questa è la riparazione più importante. E vi possono anche essere altre penitenze. Fra di esse penitenze, principale: la carità. Aver carità di pensiero, di sentimento, di parole, di azioni. Specialmente nella vita comune, quella carità che si deve adoperare quotidianamente, vorrei dire, quasi momento per momento. Poi, seconda penitenza: la vita comune nell’obbedienza alle Costituzioni, nell’osservanza degli orari, nell’adattarsi a quella vita quotidiana, in quella forma e in quegli uffici che sono dati, facendo bene quello che è la nostra parte in comunità. Ognuna la sua parte e non importa che uno sia in alto o che sia in basso, ciascheduno è caro a Dio quando compie bene quello che a lui spetta, quello che è la volontà, volontà di Dio sopra di lui.
Quindi: “poenitentia mea maxima, vita communis” (la mià più grande penitenza è la vita comune). Questa osservanza quotidiana, continuata, di ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno, è una grande penitenza, esercizio della virtù che si chiama penitenza. Ecco, dunque: la virtù della penitenza richiede quattro atti: primo: considerare il male commesso; secondo: esaminare la nostra vita, i nostri peccati e ritenerci abitualmente per colpevoli, anche se perdonati; e terzo: venire a risoluzioni serie di evitare la colpa e le occasioni che portano al peccato, le occasioni pericolose che noi possiamo e dobbiamo evitare; e quarto: inclinati a riparare; a riparare, ad esempio, le comunioni fredde con comunioni calde; riparare le divagazioni con maggior raccoglimento; riparare i peccati, in generale, con la pratica della carità e la pratica della vita comune ben osservata per il Signore, e anche in penitenza dei nostri peccati: “cor poenitens tenete” (cfr. AD 152). Così la Quaresima sarà santa, fruttuosa per le vostre anime. Sia lodato Gesù Cristo.
Beato Giacomo Alberione |