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L’ATTESA DELLA BEATA SPERANZA

 



In questa meditazione il Fondatore così ci sprona: “Se Iddio è sommo bene, eterna felicità, speriamolo… Ma non è una speranza vaga… È certezza se viviamo in grazia di Dio” (Alle Pie Discepole del Divin Maestro 1963, pp. 107-116).

La fede ci fa conoscere Dio, sommo bene ed eterna felicità. L’unico e sommo bene: Dio. Noi abbiamo da cercare quello che è il sommo bene, Dio, eterna felicità. Il Credo che è l’atto di fede, si conclude con la speranza. L’ultimo articolo: la vita eterna. Exspectantes beatam spem [stiamo aspettando la beata speranza]. Stiamo aspettando il premio, il gaudio eterno (Tt 2,13). Ecco, non sappiamo quanto ci lascia ancora su questa terra il Signore, per aumentare i meriti. Un sacerdote scriveva al suo superiore: “Sono già abbastanza anziano, sono stanco, potrebbe darmi il riposo”. E il superiore ha risposto: “Ancora 15 anni di lavoro, poi: laetantes ibimus (cfr. Sal 121,1), poi partiremo in letizia; arrivati al cielo, il gaudio eterno”. Non vi è proporzione fra il lavoro che facciamo e il premio che godremo. Anche un minimo sacrificio merita e ottiene un premio eterno; un sacrificio che dura un minuto, alle volte, un atto di amor di Dio, e questo avrà un premio eterno.
Non habemus hic manentem civitatem sed futuram inquirimus (Eb 13,14). Non abbiamo qui posto stabile, non abbiamo qui la residenza perpetua, no. Si prende la residenza in una città, in un’altra, ma è tutto di passaggio […] Eh sì. Però, dovunque andiamo, qualsiasi compito ci è destinato, sempre noi possiamo guadagnare il premio per l’eternità: futuram inquirimus [aspiriamo alla residenza futura]. E quindi, quando noi entriamo in noi stessi, riflettiamo: sì, poco tempo su questa terra, poi il gaudio in proporzione alle opere buone che facciamo. Il Signore ci ha chiamati tutti, e ci ha chiamati dandoci anche i mezzi, ci ha chiamati tutti per l’eterno gaudio. Ma per chi è consacrato a Dio, è promesso un gaudio maggiore: “Riceverete il centuplo, possederete la vita eterna” (cfr. Mt 19,29). E quando si è fatta la professione e si è sottoscritto nel libro delle professioni, ecco la tessera per il paradiso. Non solo: “Riceverete il centuplo” ma “possederete la vita eterna”. Perciò, dopo le considerazioni sulla fede (che è il

proposito della vita, non è un piccolo proposito, è il proposito della vita) viene di conseguenza la speranza. Se Iddio è sommo bene, eterna felicità, speriamolo. Da questa valle di lacrime, da questo esilio, speriamo, confidiamo. Ma non è una speranza vaga, come dire: speriamo che domani sia una bella giornata. È assicurata, con la speranza, la felicità eterna: “Possederete il paradiso”. Eh, sì. Allora, che cosa dobbiamo pensare: il Signore ha promesso il paradiso a tutti quelli che vogliono seguirlo. Egli è morto per aprirci il paradiso. Se il Figlio suo, il Figlio del Padre, è morto per aprirci il paradiso, questo significa che egli ci vuole in cielo. E il Figlio di Dio ha pagato i debiti che noi abbiamo con Dio e quindi ha aperto il paradiso per chiunque voglia arrivarci. Vi è una via più stretta, anche un po’ ripida, ma conduce all’eterno gaudio, all’eterna felicità, alla patria beata. Dall’esilio alla patria. E vi è una via comoda, ma mette capo all’inferno. Scegliete dunque la vita. Elige, ergo, vitam (Dt 30,19). Gesù già è alla destra del Padre; Maria, con Gesù: gaudio eterno. E là ci attendono. Dice il Salmo me exspectant iusti: i giusti, i santi, mi aspettano (Sal 141,8). Sì, ci aspettano. Oh, la speranza, dunque, è la seconda virtù teologale. Per molte persone serve di più il proposito sulla speranza, cioè sulla fiducia. La fiducia o speranza ha come un duplice oggetto, e cioè: il paradiso e le grazie per arrivare in paradiso. La fiducia di ricevere il premio eterno. Perché? Per la bontà di Dio, per le promesse che Dio ha fatto a chi vive bene e, soprattutto, per i meriti di Gesù Cristo.
Sono tre motivi di speranza, quali ricordiamo sempre nell’Atto di fede e poi nell’Atto di speranza. La bontà di Dio. Egli, il Signore, ci ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo e goderlo, quindi, in eterno in paradiso. E per te che hai la vocazione? Per conoscere meglio Dio, per amare di più Dio, per servire di più Dio, meglio servirlo; ma per avere un premio più abbondante in paradiso. Credere a questo frutto della vita di consacrazione a Dio: maggior premio per l’eternità. Oh, allora, confidiamo di ottenere due cose, e cioè: il paradiso e la grazia per conseguire il paradiso con le opere buone che dobbiamo, anzi “che io debbo e voglio fare”. Sì, la speranza. Chi è che va in cielo? Chi ha la veste nuziale. Perché colui che non aveva la veste nuziale ed era entrato a partecipare alla cena preparata da quel ricco signore, ecco che questi, trovando che non aveva la veste nuziale, lo cacciò fuori (cfr. Mt 22,1-14). Chi vive in grazia ha in se stesso, non solo la promessa, ma la sicurezza. Perché? Perché c’è la promessa di Dio. E Dio non inganna, Dio non promette cose inutili e inarrivabili. A tutti è promesso il cielo se si vive in grazia di Dio. Ut sedeatis et bibatis in regno Patris mei (cfr. Lc 22,30); affinché sediate e beviate alla mensa celeste, al gaudio, cioè all’eterna felicità in cielo, sì.
Quanto ci manca per arrivarci? Vorreste, vorremmo indovinare quanto tempo ancora ci manca per l’ingresso in paradiso? Così spesso, noi, anche pensando a tutta la Famiglia Paolina, così spesso riceviamo la notizia: la tale religiosa, il tale religioso è passato all’eternità; ecco, così spesso. E ci porteranno al cimitero: il corpo là, l’anima a Dio, al giudizio e, se è preparata, l’entrata immediata in cielo, sì. Quando il Signore ha annunziato le Beatitudini voleva dire che, chi vive bene già prova una gioia e una pace interna per il bene fatto. Supponiamo per il voto di povertà bene osservato. Ma questo è una pregustazione di quel che segue, cioè il cielo. Qui, una pregustazione, là, la mensa celeste. Perché si può assaggiare il cibo, ma poi dopo si può sedere alla mensa, alla tavola e nutrirsi e saziarsi quanto necessario, sì. La grazia abituale è quella vita soprannaturale che è in noi, quell’organismo spirituale che c’è in noi e che produce fede e speranza e carità, ecco. Questo organismo è un organismo degno di entrare in cielo e di, quindi, partecipare alla beatitudine, al gaudio, alla gloria di Gesù Cristo. Sì, partecipare, perché allora è la vita di Gesù in noi: “Io sono la vita” (Gv 14,6). Allora la partecipazione al gaudio, alla gloria di Gesù Cristo in cielo. Questo si chiama la grazia abituale, cioè che rimane nell’anima stabilmente. Poi c’è la grazia attuale e, cioè, il secondo oggetto della speranza: le grazie per far le opere che sono necessarie ad entrare in paradiso, l’aiuto della grazia di Dio. Quando si prega per vincere una passione, per acquistare una virtù, per osservare i propositi, per viver la vita religiosa, c’è sempre l’aiuto della grazia, se preghiamo, l’aiuto infallibile per chi prega.
E “chi prega si salva e chi prega molto si fa santo” (S. Alfonso Maria Dè Liguori). Ecco, allora l’aiuto per compiere quello che è necessario fare: vincere una tentazione, ad esempio; accettare un sacrificio o una pena, la prova che il Signore dà. Le grazie necessarie per fare il bene, per compiere le opere buone che sono necessarie, “che io debbo e voglio fare”. L’aiuto. Quindi, l’oggetto della speranza è duplice: la speranza del cielo; la fiducia nelle grazie, la speranza di ottener le grazie per farsi meriti. […] Come si acquistano queste grazie di cui abbiamo bisogno per la santificazione? Mediante la preghiera. Ecco il mezzo. Ora, siccome questo argomento richiede di dilungarsi un po’ di più, rimandiamolo. Intanto i due oggetti della speranza sono: Dio, sommo bene, eterna felicità, e le grazie per arrivare a quella felicità. Ma come? “Mediante le buone opere che io debbo e voglio fare”. Perché, siamo venuti nel mondo senza meriti ma dobbiamo partire dal mondo e presentarci a Dio con i meriti. E quali meriti? Non il bene che vogliamo noi, che scegliamo noi, ma quello che vuole Dio. Dio paga secondo i meriti. Se voi, per esempio (un esempio molto materiale), se voi chiamate un operaio, mettiamo un vetraio che deve mettervi i vetri alle finestre, e gli date un ordine, e lui lo esegue bene, eh, si deve pagare. Se invece andasse a mettere i vetri nella casa di un altro, non lo paghereste.
Se facciamo quel che il Padre celeste vuole, comanda, esprime secondo la sua volontà, paga in proporzione del lavoro che era prezioso e che era ben fatto. E se invece lo facciamo per noi, per farci vedere, ad esempio, mostrarsi buoni in pubblico e invece il cuore non è tutto con Dio, ma Dio pagherà questo? Non è fatto per lui. Egli paga quello che è fatto per lui, cioè secondo il suo volere. Temiamo molto il nostro volere, aver molta paura della nostra testardaggine o presunzione. Oh, abbiam paura del nostro “io”! Vogliamo noi, preferiamo noi; abbiam paura della nostra volontà. Dio solo, quel che piace al Signore. Perché c’è una santità unica, eh? Ma sicura: la piena conformità al volere di Dio. Come si mostra questa piena conformità al volere di Dio? Facendo quello che Dio vuole, cioè, col fare costantemente e perfettamente il volere di Dio, ecco. Costantemente, non un giorno sì e un giorno no. E perfettamente, non le cose comunque, ma in modo sempre più santo e perfetto. C’è una sola santità ed è quella: la piena, continuata conformità al volere di Dio, compiuta santamente, diligentemente, per amor di Dio. Oh, quanti meriti, allora! Che bel premio vi aspetta. Laetantes ibimus [andremo lieti]. Saremo lieti (cfr. Sal 121,1). Partiremo in gioia perché il Padre celeste ci aspetta a casa sua. Là è la patria, qui è l’esilio. “E mostraci, o Maria, dopo questo esilio il frutto benedetto del tuo seno...”.

Beato Giacomo Alberione